Santa Lucia sul Prato 2017-2018

Questa corposa pubblicazione di più di 600 pagine contiene la storia della chiesa di S. Lucia sul Prato ed è il risultato di un lavoro di ricerca archivistica durato molti anni, dove ogni affermazione si fonda su una concreta documentazione testuale, quasi sempre riportata in nota. Si spazia dalle origini, fatte risalire al X sec., fino ai nostri giorni. Emerge quindi la vita medievale del rione, attraverso le vicende dei Frati Umiliati, dei Canonici Regolari e degli altri ordini religiosi che si sono avvicendati nella reggenza della chiesa e della comunità ad essa affidata. Nel XVIII sec. si passa al patronato laico delle famiglie nobili fiorentine fra cui i Torrigiani e i Corsini. E si giunge ai parroci del XX sec., che hanno attraversato le due guerre mondiali e l’alluvione del 1966, tremenda nella parrocchia che si stende sulla riva dell’Arno e ampiamente documentata, da cui è derivato l’aspetto attuale della chiesa. Accompagna gli avvenimenti storici, e si fonde con essi, un’accurata descrizione dell’evoluzione architettonica e artistica del complesso della chiesa. Si tratta dunque di una monografia completa di tutta la storia della chiesa di S. Lucia sul Prato e di un contributo fondamentale allo studio storico-artistico di questa parte della Chiesa e della città di Firenze.

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Questo l'articolo pubblicato su TOSCANA OGGI

riguardo alla pubblicazione di Marta Benvenuti,

Santa Lucia sul Prato

Una bella relazione del nostro caro

amico Antony Visco

Arte Cristiana e corporeità

12 dicembre 2016

Centro Arte e Cultura

Piazza San Giovanni, 7 – Firenze

Et incarnatus est

Intervento di Anthony Visco per il workshop Arte Cristiana e corporeità,

che conclude la mostra In una Carne al Museo dell’Opera del Duomo.

Che grande auspicio per noi ritrovarci qui il 12 di Dicembre, Festa di Nostra Signora di Guadalupe, il giorno in cui celebriamo non la sua apparizione a Juanito ma il giorno in cui la tilma, il mantello di San Juan Diego, diventa la tela per Dio Padre, Dio l’Artista, per dipingere l’immagine teofana della Beata Vergine, in forma umana di donna in gravidanza. La Vergine appare in forma umana, non un simbolo, un genuino segno riconoscibile tra tutti gli altri indicando che il figlio ha la sua stessa carne. Per gli europei quella era un’immagine; per i messicani era un messaggio. Entrambe, l’immagine e il messaggio parlano della teologia del corpo 500 anni prima che San Giovanni Paolo II scrivesse il testo.

Quasi 70 anni dopo Guadalupe, Tommaso Campanella nel suo “De sensu rerum et magia” del 1664 scrive: “Il mondo è la statua, l’immagine, il tempio vivo di Dio, nel quale Egli ha espresso i suoi gesti e scritto i suoi concetti; Egli lo ha adornato con statue vive, semplici in paradiso, ma complesse e deboli sulla terra; ma tutte conducono a Lui.” Questa idea di Creazione come arte, come statue viventi di Dio, la terra come la sua prima Figlia, l’orbe come la sua forma Favorita, è qualcosa che è sempre stato con noi. Ora l’imitazione di Dio è completa: noi come artisti imitiamo Dio come Artista; noi come creazione imitiamo il nostro Creatore.

Noi come coloro che dicono di fare arte sacra dobbiamo fare molta attenzione al Maestro.

Fare arte sacra significa sposare la propria fede con la propria estetica con la speranza di portare ancora più vicini, “il creato” al nostro Creatore, per accorciare il vero o immaginario spazio tra “il chiamato” e “Chi chiama”. Quando l’artista risponde al Maestro, quando questo invito va a buon fine, si crea un patto; il lavoro è santificato. Questo patto è allora esteso da Dio all’artista e dall’artista ai credenti, e alla fine insieme entrambi rispondono a Dio ancora. E’ questo patto che vogliamo esplorare qui. Come la fede e l’estetica lavorano in combinazione, così il lavoro riflette entrambi. Come la cultura diventa infusa con e dalla fiducia e speranza in Dio, l’arte sacra diventa un bene indeterminato, un mezzo attraverso il quale possiamo unirci e testimoniare l’incontro tra cielo e terra. Allora, l’uso del corpo nell’arte sacra non può essere lo stesso scambio tra l’artista figurativo e la società, come accadrebbe nell’arte secolare. L’uso del corpo nell’arte sacra deve parlare di qualcosa che va al di là di se stesso.

Tutta l’arte sacra della Chiesa, le sue pitture, sculture, i disegni, e l’architettura, sono sempre stati e sono rimasti, in una certa qual maniera, una rappresentazione figurativa del linguaggio. Se non è letterale è metaforica, come il linguaggio dell’incarnazione. La forma del nostro corpo, riflessa nell’architettura bilaterale diventa allora un’allusione al Corpo di Cristo, come la Creazione di Dio stesso. Se la Chiesa avesse o dovesse aver scelto uno “stile ufficiale” come suo messaggero, la sua preferenza sarebbe chiara: in segno e simbolo, la raffigurazione del corpo nell’arte e nell’architettura sono sempre state corporee, rappresentative, e catechetiche e dunque teologiche.

Ma ancor più importante per noi qui, qual’è il ruolo di questa corporeità nell’arte sacra della Chiesa?

Perché scegliamo il corpo visibile per rivelare l’invisibile?

Per la Chiesa Cattolica il ruolo e la ragione per usare il corpo e la sua architettura corporea è una e trina. Combinate insieme, cioè quando e dove la denotazione, la connotazione e l’implicazione si uniscono per abbracciare l’intera fede.

A questo punto ci aiuta la Teologia del Corpo.

Lo studio delle proporzioni anatomiche è il desiderio di conoscere la relazione comparativa di una parte con il tutto, e di un membro con gli altri, poiché ciò che risplende nell’arte sacra e nell’architettura è la miglior metafora della Chiesa stessa. Quanto più c’è questo desiderio di una parte di conoscere il tutto così ci sarà il desiderio del fedele di conoscere qual’ è la sua parte all’interno del “Corpo Mistico”. Allora, ogni cosa cerca di prendere il suo posto nella divina proporzione perché tutto ha uno scopo divino.

Tutte le rappresentazioni pittoriche e scultoree contengono il “medio” e l’ideale in vari gradi di proporzione. Il crocifisso di Cimabue, una commissione francescana, ha fornito un modello sia per i pittori che per gli scultori. La nozione di gravità, il senso del peso umano, la composizione di forme convesse delle sue parti, rinforzano il messaggio del Poverello ricordandoci che è possibile trovare la carne di Cristo nel più prossimo vicino a noi. Ma soprattutto, contiene qualcosa del “medio” e dell’ideale nelle sue forme.

Commissionato nel 1252 dai francescani per la Chiesa di Santa Croce a Firenze, fu un cambio non solo dalla forma delChristus Triumphans, di modello medievale, al Christus Patiens di San Francesco, ma anche ad un modello anatomico che ha aperto le porte per gli scultori e i pittori. L’anatomia era rimasta sepolta nell’antichità per essere svelata e re-inventata attraverso la spiritualità fra vità dello stile che dobbiamo qui apprezzare quanto il suo significato. Se ci fermassimo alla novità saremmo sul sentiero di una storia dell’arte Darwiniana che ci condanna a un pensiero lineare di stili nel quale ciascuno genera il successivo e ci porterebbe solo all’arte secolarizzata, ossia ad un’arte fatta solo per le istituzioni artistiche. La bellezza di Cimabue viene non dalla rottura di uno stile ma da una comprensione più profonda della teologia del corpo di Cristo crocifisso.

Siccome la Chiesa è aperta e inclusiva, così deve essere l’arte che la rappresenta. Non può allontanare lo spettatore. Le sue ragioni per usare un linguaggio antropomorfico sono ovvie; noi, per nostra iniziativa, non possiamo antropomorfizzare il nostro Dio. Ma è il nostro Dio che si è fatto la Carne che Egli ha creato per noi, l’ha presa su di Sé per la nostra salvezza. Così il corporeo era e rimane un linguaggio rappresentativo nel quale i segni e i simboli dell’Incarnazione teologica e la salvezza storica possono essere al meglio presentati.

L’Alberti ci parla di “membratura” di un edificio o di un corpo. Nella scultura e pittura rappresentativa questa interrelazione diventa d’obbligo. In essa noi diventiamo emblema del Corpo Mistico. Usiamo il corpo non solo come segno per il visibile ma anche come simbolo per l’invisibile. Il suo linguaggio è sia scritturistico che corporeo, come nel Nuovo Testamento che risplende mettendo Cristo, i suoi discepoli, e noi stessi, in metafore architettoniche, “fondamenta”, pietre vive”, “questo tempio”, “colonne”, “casa”, “pietra angolare”, tutti sono diventati elementi, segni e simboli cristiani. Questo linguaggio rimane aperto e inclusivo come le arti e l’architettura continuano a prendere elementi dal linguaggio del corpo, la simmetria bilaterale, la sua frontalità, e le sue proporzioni. Tutto porta a percorrere la via più umana di rappresentare ed esprimere il Logos Incarnato. Senza la rappresentazione corporea, questo uso teologico del corpo, il senso inclusivo di noi stessi nel Corpo incarnato di Cristo, sarebbe perduto. Si è mai pensato che nella misura in cui ci sia un cattivo uso o un non uso della figura nelle nostre Chiese, è più naturale cominciare a vedere il Santissimo Sacramento come un semplice simbolo? Così come la nostra liturgia ha un ordine, l’arte che l’assiste dovrà essa pure avere un ordine. Qui, lo spazio fisico ha un significato e attraverso la posizione, l’arte sacra ci indirizza al sacro presente davanti a noi. Sant’Ignazio di Loyola, non ci dice nulla di arte ma ci dà come “un’armatura" nei sui Esercizi Spirituali: “Vedere con gli occhi dell’immaginazione il posto fisico dove l’oggetto che si vuol contemplare si trova”. Lo chiama così “composizione, vedere il luogo”. E ci insegna anche a guardare le persone con gli occhi dell’immaginazione, per sentire e gustare l’infinita bontà di Dio, per celebrare gli edifici e gli ornamenti della Chiesa, per celebrare le immagini e venerarle per ciò che rappresentano”.

L’abilità o qualità per usare il visivo per rappresentare ed esprimere l’invisibile è condizione necessaria per l’arte sacra ed è al cuore della teologia del corpo. Come l’Invisibile è entrato nella sua stessa creazione e ha preso la stessa carne che Lui ha pensato per noi, così è diventato visibile, e noi artisti siamo chiamati a usare il visibile affinché i fedeli tornino di nuovo all’invisibile. Qui è dove ciò che parla di bellezza parlerà anche di bontà e verità. Se l’arte sacra deve avere una morale estetica, deve essere un’estetica visiva. Nel suo discorso agli artisti sulla funzione dell’artePio XII raccomanda: Cerca Dio nella natura e nell’uomo, ma soprattutto in te stesso. Non cercare con vanità di dare l’umano senza il divino, né la natura senza il suo Creatore. Armonizza invece l’infinito e l’eterno, l’uomo con Dio, e darai la verità dell’arte e la vera arte.”

Quando diciamo che un lavoro dovrebbe aspirare a una trasformazione personale il suo obiettivo allora è di farci sentire e capire il nostro posto nel Corpo Mistico. Una volta che questa connessione con il Corpo Mistico è accettata dall’artista e dal fedele la trasfigurazione è realizzata.

Da Francesco d’Assisi in poi, i dipinti e le sculture hanno preso la loro naturale pienezza, la loro meraviglia biologica. Parte di ciò è dovuto al suo Cantico di Frate Sole. Ciò che San Francesco fece è molto diverso dall’antropomorfismo pagano dei Greci e dei Romani e va oltre la semplice personificazione degli elementi. “Fratello Sole”, “Sorella Luna”, “Fratello Fuoco”, “Sorella Acqua”, e naturalmente gli uccelli, i suoi “Fratelli e Sorelle dell’Aria” erano parte della creazione con Adamo ed Eva, e ancor più con Cristo. Mai prima la personificazione nell’arte ha avuto un tale impatto di includere tutta l’umanità in una famiglia assieme a tutta la creazione. Rinominandoli in termini familiari, Francesco ha fatto l’intera Creazione una famiglia, qualcosa che la personificazione degli dei e delle dee pagane non avrebbero mai potuto fare, anche volendolo. Come cattolici possiamo sperimentare la trasformazione personale e comunitaria. La nostra “famiglia” è dimostrata, la comunità invisibile è realizzata attraverso mezzi visivi.

Il Poverello di Assisi ci ha dato l’ispirazione di raffigurare il nostro corpo umano e il Corpo di Cristo così come sono stati creati; cominciando con la contemplazione dei nostri peccati, sulla vita di Cristo, la Passione e finalmente la Resurrezione e l’Ascensione. Più ancora per l’artista è l’uso mondano, il corpo materiale e i sensi che ci rivelano il divino. Quanto è questo corpo come quello della stessa incarnazione! Qui è dove possiamo guardare al crocefisso di Cimabue e vedere, come i figli esiliati di Eva, vedere il secondo Adamo ed esclamare: “Questa è carne della mia carne, ossa delle mie ossa”.